Le leggi 219/17 e 38/10 – su consenso, disposizioni anticipate e cure palliative – sono in continuità con il principio della vita fino alla fine. Intendono garantire una vita che trovi bilanciamento fra qualità, rispetto e diritto alla felicità fino all’ultimo istante e all’ultimo respiro. La normativa sulle disposizioni anticipate di trattamento è congruente con questo. Questo è il tema trattato.
Il cuore della relazione della Professoressa Ines Testoni contempla il fatto che “l’essere umano abita la parola”, trasforma così il mondo e l’ambiente attraverso la sua interpretazione. A questo proposito ancora più rilevanti sembrano le considerazioni fatte sull’eutanasia da parte del senso comune, spesso senza conoscere i dettagli, i risvolti e i contesti specifici di situazioni così delicate.
Qui parleremo di qualcosa che è stato definito “desistenza terapeutica” in passato, quando ci si è resi conto che, per esempio con il caso Welby, qualcuno ritiene di aver perso l’identità e con la propria identità la dignità. Se parliamo di dignità non possiamo che evocare, dopo Hitler e il suo programma eugenetico e di eutanasia, i processi di Norimberga…
Si teme che la formulazione di questa legge sia una fase di passaggio verso l’approvazione dell’eutanasia dal punto di vista legale. Tanto che la stampa pare abbia presentato questo convegno come centrato sull’eutanasia. Non è invece questo l’argomento.
Riconoscersi come identità, avere accesso alla piena auto-trascendenza, auto-realizzazione e alla possibilità di studiare, comprendere e…
…di abitare un linguaggio sempre più ampio e di co-costruire con gli altri un mondo per tutti e ognuno.
Don Milani
Individuo e società
L’individuo non è qualcuno da usare fino al sacrificio per la società, ma al contrario, ogni persona lavora per la società affinché essa conferisca a ognuno i diritti umani fondamentali.
Questo è concepito oggi, ma prima dei processi di Norimberga, durante il nazismo, spiega la Professoressa, qualsiasi individuo era suddito (cfr. studi di Agamben, Homo sacer). L’individuo, la persona, era in funzione della società e i processi sono stati un punto di svolta perché questo concetto invertisse i rapporti.
A quanto pare allora, lo scenario aperto ai diritti umani il 10 dicembre 1948 ha gettato le basi per una società che contempli la felicità e l’auto-realizzazione di ognuno: lavoriamo tutti insieme per ognuno di noi. Entro questo concetto sostanziale, a guida della giurisdizione che deriva dai diritti umani fondamentali, c’è stato il passaggio cruciale della Convenzione di Oviedo del 1997. Essa verteva sui diritti umani e la biomedicina e sottolineava uno dei concetti fondamentali, quale quello della dignità.
Dignità e autodeterminazione
Come viene gestito tale concetto nel dialogo tra coloro che sono pro e contro l’autodeterminazione? Il diritto all’autodeterminazione si concretizza talvolta nel definire se voler vivere oppure no, in determinate condizioni di salute. Autodeterminarsi significa quindi decidere di interrompere le cure in tali situazioni.
Le posizioni si prospettano opposte. Da una parte coloro che non contemplano la possibilità di autodeterminarsi e scegliere liberamente di ricorrere alle tecniche che mantengono in vita una persona, qualora si trovi in condizioni precarie di salute.
L’idea, in questa posizione, sarebbe quella di un soggetto la cui vita non farebbe parte della propria identità. Per i religiosi, ad esempio, la vita appartiene a Dio e non alla persona. Anche coloro che si attestano in una posizione storica precedente al 1948 considerano che la vita dell’individuo appartenga allo Stato: e non parte costituente dell’identità/ dignità personale. Sarebbe lo Stato, quindi, a stabilire che cosa debba essere fatto della vita di ognuno.
Chi è convinto, al contrario, che l’elemento sostanziale della dignità sia l’autodeterminazione della propria vita – e tra questi sono presenti anche religiosi – sostiene che la vita sia un aspetto sostanziale della dimensione bio-psico-sociale della persona.
La vita fa parte dell’identità e del modo simbolico in cui è espressa dalla persona, per cui l’autodeterminazione deve ricadere entro il soggetto e non al di fuori di esso.
La dignità viene invocata in entrambi i casi con accezioni opposte: dignità significa poter decidere per sé fino all’ultimo, per i laici e per i religiosi che considerano la vita un bene personale. Coloro, invece, che ritengono la vita non appartenga alla persona, la considerano un bene di Dio/ dello Stato da amministrare con tutti gli strumenti possibili affinché non sia persa, senza eccezioni.
Benessere e psicologia positiva
Che cosa dice la psicologia su questo individuo sociale e condiviso che costruisce il proprio percorso verso la felicità? e chi parla di felicità?
In questo contesto il termine è utilizzato con un’accezione filosofica significativa: eudaimonìa, con etimologia dal greco, è la felicità intesa come scopo della vita e come fondamento dell’etica. Andar d’accordo con il proprio essere mentale, esser sé, non soltanto in ambito filosofico, ma anche in ambito psicologico.
Ne parla la psicologia positiva considerando che ognuno di noi sarebbe chiamato all’autorealizzazione piena. Questo è possibile quando nella società ognuno trova la propria possibilità di auto trascendenza, fino alla fine. La motivazione all’auto trascendenza non può essere eterodiretta. Ovvero, non è possibile imporre la motivazione ad arrivare alla santità e alla saggezza, le dimensioni più autentiche della felicità a cui siamo rivolti come scopo ultimo, se pensiamo alla morte.
Gli studi dimostrano che se togliamo all’individuo il potere di decidere, la società diventa un ambiente che impone una motivazione dall’esterno (cfr. Self determination theory). In questo modo l’individuo si sente impotente, a maggior ragione se una malattia già lo limita nella costruzione del proprio mondo. L’ultimo territorio che resta per l’esercizio della volontà, quando una persona si trova in una fase terminale di malattia, è se stesso.
Attualmente, in questo contesto, non è permesso esercitare l’ultimo potere che ti rimane. Quindi dal punto di vista psicologico possiamo chiederci che tipo di società vogliamo essere.
Non è chiaro, poi, se le persone quando vogliono qualcosa siano totalmente consapevoli di ciò di cui parlano, allora giornate come quella di questo evento servono proprio a chiarire l’uso delle parole. Ed ecco perché, anziché censurare i temi sulla morte e sul morire, sembra necessario maturare il coraggio di affrontarli. Ricordando, anche, il compito che sarebbe vantaggioso saper svolgere al meglio: chiederci se nell’ultima fase della vita potremo ritenerci saggi, santi o comunque felici.